“Siamo fatti così, siamo proprio fatti così” recitava la sigla musicale di una nota serie animata (chi di noi è stato bambino negli anni ’80 la starà probabilmente canticchiando in testa, vero?). Ma ciò che dice il ritornello è corretto solo in parte. Mentre per gli aspetti fisici ed organici possiamo senza dubbio affermare di essere “fatti così”, il discorso è del tutto diverso quando si tratta degli aspetti mentali e psicologici – in altre parole di “chi siamo”, di “cosa pensiamo” e di “cosa sentiamo”.
Eppure si finisce per cadere spesso in questa trappola. Quante volte ci capita di dire «eh, sono fatto così, è il mio carattere» o di riferirci a qualcun altro negli stessi termini? Con l’intento – più o meno manifesto – di giustificarci o di giustificare l’altro, come a dire «che posso farci?», «che possiamo farci?», come se l’unica alternativa fosse quella di dover accettare un imprescindibile ed immutabile dato di fatto… e cioè che ciascuno è fatto come è fatto. Questo modo di pensare porta con sé diversi limiti e criticità, precludendo l’idea stessa del cambiamento.
Le cose tuttavia non stanno così. Ci nascondiamo spesso dietro a concetti come la personalità o il carattere – io ho il mio, tu hai il tuo – senza renderci conto che rischiamo di incollarci addosso una scomoda etichetta. Perché scomoda? Perché implicitamente ci vincola entro certi limiti, entro una definizione di noi stessi che guida i nostri pensieri e comportamenti in maniera univoca; in altre parole, ci trattiene all’interno di uno schema d’azione che tende a ripetersi e che non lascia dunque spazio ad altri modi di agire.
Facciamo un esempio. Se attribuisco le mie reazioni impulsive ad elementi del mio carattere – perché “sono fatto così”, perché “sono una testa calda” – sto escludendo a priori la possibilità di comportarmi in maniera differente nel momento in cui ricevo una critica o vengo provocato; finisco allora per interagire con gli altri sempre allo stesso modo, fino alla discussione o allo scontro, invece che provare ad ottenere un risultato diverso: tutto ciò può rivelarsi controproducente, soprattutto con determinate persone o in determinati contesti (un colloquio di lavoro, un esame universitario, una relazione amorosa, eccetera).
Facciamo un altro esempio. Un genitore accontenta costantemente il figlio per evitare che questo si metta ad urlare: d’altronde “lui è fatto così”, che altro si può fare? Appagando ogni sua richiesta in modo indiscriminato, senza cioè distinguere il bisogno dal capriccio, il rischio è quello di rafforzare l’uso del comportamento molesto da parte del figlio, che verrà considerato ad oltranza un “bambino difficile” – un’etichetta da cui può non essere semplice svincolarsi.
Come dicevo, le cose decisamente non stanno così. Nessuno di noi è stato creato con uno stampo che viene poi gettato. Mentre il nostro corpo è formato da ossa, muscoli e quant’altro, la nostra mente non è assemblata con viti e bulloni: siamo plastici, duttili, trasformabili.
Ciò che siamo – o meglio, che diventiamo – lo costruiamo quotidianamente in modo attivo, molto spesso in maniera inconsapevole. Accade infatti che ci si trasformi nel tempo, senza rendersene conto… magari la consapevolezza arriva in seguito, con nostra grande sorpresa e talvolta con un vago senso di smarrimento, altre volte invece con stupore e soddisfazione. È un processo naturale che prosegue per tutta la vita, basti pensare ai molteplici mutamenti che ci accompagnano nell’arco della crescita, dall’infanzia all’adolescenza, traghettandoci poi verso l’età adulta. Per non parlare dei cambiamenti che avvengono in noi quando stringiamo un forte legame con qualcuno, quando ci innamoriamo, quando cambiamo lavoro, quando subiamo un lutto, quando diventiamo genitori, quando ci trasferiamo lontano… cambiamo ambiente e relazioni persino quotidianamente: ci trasformiamo da partner a genitore, da professionista ad amico, mutiamo in continuazione nel corso delle nostre giornate.
Come psicologo, mi sento talvolta “allergico” alle etichette. Piuttosto che soffermarmi troppo sulle definizioni preferisco di gran lunga mostrare alle persone la varietà di alternative che rimangono nell’ombra, oscurate dalla convinzione di essere fatti di una certa pasta; preferisco aiutarle a vedere che esistono altre possibilità, altre strade da esplorare; preferisco spingere i miei clienti a sperimentare nuovi modi di essere, restando comunque se stessi. In altre parole, preferisco dare un’opportunità al cambiamento.
Perché non siamo fatti di mattoncini.
Siamo fatti di splendidi materiali plastici: percezioni, pensieri, emozioni.
Siamo sempre diversi e sempre in cambiamento. Non è straordinario?