Una foto può rappresentare molte cose differenti – un documento, un ricordo, un’opera d’arte – a seconda di ciò che raffigura e dello scopo per cui viene ideata. Quello che spesso sfugge, però, è che in ogni caso essa rappresenta la finestra su un mondo vastissimo da esplorare, una via d’accesso per l’universo soggettivo di chi la realizza. Ciò la rende uno strumento potente, persino in psicologia. Cosa pensereste se uno psicologo vi domandasse di fargli vedere le vostre fotografie?
Mostrami una foto e (non) ti dirò chi sei!
Non sono un mago o un indovino, questo è chiaro. Non posso capire chi sei attraverso una fotografia, né con qualsiasi altro mezzo. Allora, qual è il ruolo dello psicologo?
Faccio una premessa. Non credo innanzitutto che esista una definizione in grado di racchiudere l’essenza di una persona in maniera assoluta. È vero o no che si può essere professionisti seri nel lavoro e amici scherzosi durante i week-end? È vero o no che i genitori sono al contempo figli di qualcun altro? È vero o no che si può essere tanto spontanei quanto riservati, a seconda del rapporto, del momento e del contesto? Bisogna per forza scegliere un’etichetta per descriversi in modo totalitario?
Di conseguenza, come professionista non posso – né tanto meno desidero – attribuire all’altro una definizione univoca e limitante. Preferisco invece conoscerlo gradualmente, per riuscire a cogliere le sue infinite variazioni, sfumature, potenzialità, ed aiutarlo così a comprendersi meglio. In altre parole, lo psicologo osserva la complessità, la semplifica e la restituisce all’altro, dando inizio al dialogo terapeutico.
Perché dunque, nel mio lavoro, chiedo alle persone di mostrarmi le loro foto?
Di primo impatto può forse apparire bizzarro. In particolari circostanze, tuttavia, è interessante ed utile affiancare alla parola un ulteriore livello di comunicazione; ricorrere al linguaggio dell’immagine può allora rivelarsi una pratica davvero efficace. Quando chiedo a qualcuno di mostrarmi una fotografia, infatti, gli sto in qualche modo chiedendo di mostrarmi come vede il mondo – in altre parole, di illustrarmi direttamente il suo punto di vista – andando oltre a qualsiasi limite o resistenza legati all’espressione verbale. La foto che una persona sceglie di mostrare, infatti, raffigura e rappresenta la versione della realtà che vuole condividere con l’altro – con me, nel caso specifico della psicoterapia.
Pensate al genitore orgoglioso che vi porge la foto del figlio: l’immagine che sceglie di condividere con voi si avvicina quasi certamente all’idea che ha di lui e al sentimento di affetto, di fierezza o di gioia che desidera comunicarvi. L’atleta a cui è richiesta una foto con cui presentarsi (per un evento, un profilo online o quant’altro) sceglie molto probabilmente un’immagine che lo ritragga in abbigliamento o in atteggiamento sportivo, per mettere in risalto l’aspetto identitario che considera più importante e più adeguato per definire se stesso. Quando si decide di stampare una fotografia da appendere in salotto, di grandi dimensioni e con una bella cornice, si sceglie un’immagine che in qualche modo ci rappresenti o che ci rimandi ad un ricordo, ad una sensazione o ad uno stato d’animo per noi significativo.
Questi esempi illustrano come la scelta di una fotografia, tanto quanto la sua realizzazione, costituisca in ogni caso un’azione intenzionale e comunicativa da parte dell’individuo; dietro a tale azione si celano la sua personale visione del mondo e la sua percezione della realtà. Ecco uno dei motivi per cui la fotografia può rappresentare uno strumento prezioso durante il percorso di psicoterapia: consente infatti al terapeuta di osservare la realtà direttamente attraverso lo sguardo altrui, accedendo in questo modo alla soggettività dell’altro, alla sua unicità e al suo universo interiore di vissuti e di significati.
Guardando le immagini dei miei clienti non sono dunque alla ricerca di “cose”, elementi o fatti che confermino le mie teorie professionali o una qualche verità diagnostica; mi metto invece in un atteggiamento di osservazione e di scoperta, che si sviluppa sempre nel dialogo con l’altro. È un percorso non soltanto di osservazione, ma anche di narrazione e di condivisione.
Si torna così all’incipit di questo articolo. Ogni foto può consentire l’accesso ad un mondo vastissimo da esplorare insieme, una realtà in continuo mutamento racchiusa nell’immobilità dell’immagine, un universo ricco di possibilità e di sfaccettature. Dunque, alla luce di ciò, cosa pensereste se uno psicologo vi domandasse di mostrargli le vostre fotografie?