La scorsa settimana mi trovavo nello studio fotografico di un amico. Per me rappresenta un ambiente familiare. Tra fondali, schermi, ombrelli e flash mi trovo perfettamente a mio agio. Non si trattava però di una visita di piacere: stavolta non sarei stato dietro alla fotocamera, come di consueto… stavolta sarei stato davanti all’obiettivo! Ho chiesto infatti all’amico Davide di scattarmi un paio di ritratti per il prossimo rinnovo del mio sito web. Bene dunque, al lavoro! Set pronto, luci, prove tecniche… e si comincia! Lo sento pronunciare la frase di rito, quella che dà inizio al processo: «mettiti in posa».
La definizione di pòsa, secondo il vocabolario Treccani, comprende “l’atteggiamento stesso in cui ci si pone per essere ritratti o fotografati […] Più genericam., la posizione del corpo e delle membra, l’atteggiamento della persona sia in un ritratto o in una fotografia, sia anche nella realtà […] fig. Modo di atteggiarsi e di comportarsi non naturale ma studiato e affettato, di chi vuol apparire ciò che non è”. L’espressione “assumere una posa” può quindi avere un duplice significato, uno letterale e uno figurato.
L’indicazione «mettiti in posa» può essere per alcuni fonte di timore e di smarrimento. Ci si chiede infatti, a quel punto, “cosa devo fare adesso?”. Si rischia così di rimanere nel limbo dell’indecisione, imbambolati di fronte all’obiettivo con un sorriso imbarazzato.
Nel mio caso, l’esperienza di anni dall’altra parte della barricata mi ha offerto un deciso vantaggio nel momento in cui mi è stata rivolta la temuta frase. Ero lì per ottenere delle immagini di me stesso che fossero adatte ad uno scopo ben preciso, quello cioè di presentarmi al popolo della rete in quanto professionista. Posando di fronte all’obiettivo, dunque, la domanda che mi risuonava nella mente era questa: “cosa voglio comunicare?”. Interrogativo che, implicitamente, conduceva ad un’ulteriore domanda: “come dovrei apparire per riuscirci?”.
Perché, come e quando si assume una posa?
Il nostro modo di atteggiarci è sempre il risultato di un processo che coinvolge il contesto interattivo e quello sociale. Rappresenta infatti una scelta operata sulla base di svariati elementi, tra i quali: le circostanze in cui ci troviamo, le persone con cui ci rapportiamo e quello che desideriamo ottenere in un determinato momento. Si potrebbe dire, banalizzando, che ciò permette a ciascun individuo di elaborare – più o meno consapevolmente – una formula di comportamento adatta ad ogni situazione specifica. In altre parole, permette di assumere un ruolo.
In questo senso, la posa serve a comunicare agli altri qualcosa su di noi, consentendoci di selezionare attivamente le informazioni che vogliamo offrire attraverso l’interazione. La fotografica fornisce un ottimo esempio di tale processo. Colui che si mette in posa per un ritratto, infatti, mostra se stesso e comunica qualcosa di sé per mezzo di informazioni scelte come l’abbigliamento, la postura, lo sguardo, l’espressione… in definitiva, tramite la posa.
La realtà che abitiamo ci richiede costantemente di assumere una serie di pose – e con esse una serie di ruoli – che dobbiamo continuare ad indossare come se ci appartenessero. In quanto esseri sociali, si potrebbe quasi affermare che viviamo delle vite in posa.
Lo stesso discorso della fotografia sembra infatti valere per tutti i ruoli – per tutte le pose – che assumiamo nelle nostre interazioni quotidiane. Dico tutti poiché mi riferisco ad ogni tipo di ruolo e ad ogni forma di interazione possibili. Oltre ai rapporti sociali più comuni, che avvengono generalmente di persona e che permettono di trasmettere l’immagine di sé attraverso la presenza fisica e la modulazione del comportamento, vanno oggigiorno considerate anche le relazioni che hanno luogo virtualmente e che si basano su immagini di sé tangibili, spesso realizzate al preciso scopo di delineare un’identità personale montata ad arte, una rappresentazione di sé creata appositamente per essere mostrata agli altri. Si tratta di un tema attuale e complesso, che approfondirò in uno dei prossimi articoli.
Come dicevo, lo stesso discorso della posa fotografica sembra valere per tutti i ruoli che possiamo ricoprire nelle nostre interazioni quotidiane, non soltanto per quelle più formali e strutturate. L’esempio che subito viene in mente è senza dubbio quello dell’ambiente lavorativo, in quanto rappresenta un contesto caratterizzato da rapporti formali che si basano su ruoli ben definiti – anche interattivamente; infatti, le persone che interagiscono sul luogo di lavoro si presentano ai colleghi o ai clienti secondo precise norme e regole (comportamento, abbigliamento, eccetera), che sono condivise e per questo facilmente intellegibili.
Eppure, spesso ci “mettiamo in posa” anche quando ci relazioniamo con i nostri amici e familiari. Persino nella comfort zone delle mura domestiche, infatti, non siamo esenti da tutti quei processi cognitivi automatici che ci inducono a comportarci e dunque a presentarci in un certo modo. Anche la decisione di mostrare il nostro lato più spontaneo, in fin dei conti, è una scelta che risulta dettata dalla domanda implicita “come voglio apparire a questa persona in questo momento?”. Decisione che può chiaramente mutare in particolari circostanze, portandoci a modificare la nostra posa a seconda della necessità. Si pensi ad esempio ai rapporti di coppia, in cui le diverse dinamiche tra i partner e i diversi contesti possono indurre a mostrarsi con maggiore spontaneità in determinate circostanze, mentre in altre si tende ad assumere atteggiamenti più impostati.
I ruoli che ciascuno di noi assume – e con essi la nostra maniera di porci sempre diversa – cambiano dunque in base alla persona con cui interagiamo e spesso cambiano anche a seconda del tipo di interazione che mettiamo in atto con la stessa persona in differenti occasioni.
L’atteggiamento di chi si lascia fotografare mostra allora alcuni aspetti in comune con quanto ciascuno di noi mette in atto ogniqualvolta cerca di interagire con persone e in situazioni diverse nel proprio quotidiano. Ciò consente di paragonare il catalogo delle pose fotografiche ad un metaforico repertorio di “pose interattive” o “pose sociali”, applicabili a seconda del contesto. Pose fotografiche, quindi, come pose sociali. Similitudine che appare ancor più convincente se si osservano i nuovi contesti moderni, come ad esempio quelli dei social network, in cui le pose fotografiche tendono sempre più ad assumere in tutto e per tutto la funzione di vere e proprie pose sociali.
A ben pensarci, l’obiettivo della fotocamera rappresenta in fin dei conti un surrogato dello sguardo altrui; uno sguardo che viene automaticamente anticipato, così come ci si anticipa il risultato finale della fotografia. Questo fa sì che la persona in posa – fotografica o sociale che sia – sia sempre in grado di scegliere le informazioni ritenute più adeguate al fine di mostrarsi e presentarsi al meglio.
Sulla questione ho precedentemente scritto in maniera approfondita per la rivista Scienze dell’Interazione; potete trovare la coppia di articoli cliccando rispettivamente qui e qui.
Nonostante l’impatto sempre maggiore di immagini e selfie nelle nostre vite comporti alcune criticità, anche stavolta c’è il rovescio della medaglia. La fotografia offre infatti svariate opportunità di utilizzo positivo se affiancata in maniera creativa e strategica ad un percorso di personale o psicologico. Può dunque la posa fotografica costituire uno strumento terapeutico?
Nel mio lavoro di psicoterapeuta ho spesso a che fare con l’espressione di vissuti negativi legati al ruolo e all’immagine di sé. A chi non è mai capitato di sperimentare una forma di disagio – se non addirittura di malessere – rispetto al ruolo che talvolta ci si trova costretti a rivestire? Oppure nei confronti di quelle relazioni che implicano, per l’appunto, l’assunzione di un ruolo che sentiamo non appartenerci? Quante volte l’immagine che gli altri hanno di noi viene percepita come fonte di eccessivo turbamento?
La possibilità di ricorrere alla fotografia mi consente, in tali circostanze, di giocare su questa sorta di parallelismo metaforico tra pose fotografiche e pose sociali. Per mezzo delle tecniche di fototerapia e di fotografia terapeutica, ad esempio, si può offrire all’altro l’occasione di sperimentare i propri ruoli attraverso un lavoro di posa – direttamente – e in seguito di auto osservazione – indirettamente – che si svolge all’interno di un contesto protetto. Grazie all’estrema versatilità dello strumento, si possono costruire esercizi personalizzati che tengano conto delle esigenze, delle risorse e dei limiti individuali, e che possano inoltre essere integrati in un più ampio percorso di cambiamento.