In molti avranno notato come psicologi e psicoterapeuti ricorrano spesso e volentieri all’utilizzo di metafore, aneddoti o frasi evocative al fine di spiegare, chiarire o esprimere idee e concetti. In diversi casi, infatti, il linguaggio metaforico è in grado di favorire la comunicazione tra persone che stanno dialogando.
Ma questo come avviene? Qual è il processo che si cela dietro all’uso delle metafore?
Attraverso la metafora, si ha la possibilità di introdurre dei giochi linguistici alternativi rispetto a quelli che vengono abitualmente proposti in una conversazione. Emergono così nuovi stili narrativi che danno spazio a nuovi significati da condividere, elaborare e discutere insieme. In psicoterapia, dunque, l’espediente metaforico può essere impiegato come un efficace strumento del cambiamento.
Personalmente lo uso spesso, sia nella vita quotidiana che durante i colloqui clinici, tant’è che le metafore facevano già parte del mio repertorio comunicativo ancor prima di diventare un professionista della psicologia.
Nell’ultimo periodo ho svolto attività di smart working direttamente da una località sull’altopiano. Tale contesto mi ha riportato alla mente la metafora della montagna, che avevo formulato durante un incontro di psicoterapia nell’estate scorsa.
Il mio interlocutore era in quell’occasione un ragazzo affannato dalla continua e frustrante scalata verso una meta idealizzata, impegno che gli richiedeva a livello psicologico un enorme sforzo quotidiano. Ciò gli impediva di cogliere gli aspetti significativi del suo presente. Gli ho proposto allora la seguente metafora:
«Immagina di dover scalare una montagna. Anzi, immaginiamo una catena montuosa. Puoi decidere di raggiungere il picco della montagna che stai scalando, per poterci mettere la tua bandiera e poter dire di avercela fatta; puoi riuscirci nel tempo che avevi stabilito, anche se ti senti stanco, anche se il respiro è diventato affannoso per via della fatica e dell’aria rarefatta. Ma nonostante questo, dopo aver piantato la bandiera, ti guardi intorno e ti accorgi che più in là c’è un’altra vetta, vuoi raggiungere anche quella, salire, salire, continuare a salire. Oppure, puoi decidere di fermarti prima di raggiungere la cima, per riprendere le forze; alla vetta, comunque, potrai arrivarci domani. Nel frattempo, accampandoti, puoi restare ad osservare il panorama dalla posizione che hai raggiunto. Non è certo possibile godersi la vista, se lo sguardo è sempre rivolto alla montagna successiva. In ogni caso potrai raggiungere la meta, ma sarai libero di scegliere il “come” e il “quando”».
La frenesia del ragazzo nel continuo tentativo di scalare la sua personale montagna – quel desiderio di perfezione che non riusciva in alcun modo a placare – gli impediva di osservare la situazione da un punto di vista differente. Attraverso la metafora della montagna, gli ho fornito un’immagine che gli permettesse di visualizzarsi in cima ad una vetta e che gli consentisse di fermarsi finalmente ad osservare il panorama invece che fissare il suo pensiero verso la cima più in alto, e quella più in alto, e quella più in alto ancora. In altre parole, la metafora ha innescato un processo di cambiamento che abbiamo poi sviluppato nel corso dei successivi incontri.
Ognuno di noi ha la propria personale montagna da scalare. Alcune hanno le pareti rocciose, altre sono ricoperte di vegetazione. Alcune si stagliano sotto un cielo assolato, altre sono avvolte in una bufera di neve. Alcune salite sono ripide e impervie, altre seguono un sentiero che si snoda lungo un lieve pendio. Alcune montagne franano, altre resistono agli elementi. Ognuna di esse richiede perciò un diverso sforzo, una diversa andatura e un diverso equipaggiamento. Per chiudere quest’ulteriore ed ultima metafora, è necessario però sfatare un mito: lo psicologo non può scalare la montagna al posto tuo, ma può prepararti all’impresa e fornirti l’attrezzatura più adatta per riuscirci da solo. Senza dimenticarti di ammirare il panorama.