Riflessioni sull’uso del tempo, dalla frenesia alla paura del vuoto.
Siamo tutti ormai abituati a scandirlo, a contarlo, a misurarlo. Nonostante esso si pieghi ai principi della relatività, fino quasi a deformarsi come gli orologi nei dipinti surrealisti di Salvador Dalí. Ma qual è il suo ruolo nel nostro quotidiano?
Il tempo è senza dubbio un elemento essenziale delle nostre esistenze. Anzi, potremmo dire che spesso il tempo è padrone delle nostre vite. Le nostre giornate sono governate e scandite dal dio Kronos, dalle lancette che corrono e dalla sensazione che esso ci sfugga di mano. “Tempus fugit”, il tempo scorre, è un fiume inarrestabile, e noi dobbiamo riuscire a stargli appresso per non rimanere indietro. Tutto ciò può essere fonte di enorme stress.
Ma cosa ci induce a vivere il tempo in questo modo? Cosa genera queste sensazioni di impotenza e di angoscia nei confronti del tempo? Perché ci sentiamo sempre di fretta?
Basti pensare, tanto per cominciare, a come il tempo viene rappresentato all’interno di numerose espressioni comunemente usate nel linguaggio quotidiano. “Il tempo è denaro”. “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Giusto per citarne alcune. Ecco che il tempo assume il significato di un bene prezioso – in termini addirittura quantitativi ed economici – la cui perdita diventa perciò una mancanza di concreto guadagno… ma qual è il “reale” valore del tempo? Cosa può davvero rappresentare la sua perdita?
Viviamo in una società regolata dal tempo e che esige dagli individui un ritmo spedito, promuovendo attività fast, easy o smart e bombardandoci di slogan pubblicitari che ci vendono tempo o che ci promettono di farcelo risparmiare – come si trattasse di denaro, ancora una volta. Fast food e snack da consumare direttamente alla scrivania dell’ufficio, trasporti ad alta velocità, acquisti rapidi con un clic o senza più bisogno di digitare codici, consegne a domicilio garantite in un giorno lavorativo, sessioni concentrate di massacranti esercizi in palestra. In altre parole, la società ci procura una larga varietà di escamotage per contrastare l’inesorabile avanzata quotidiana di questo terribile nemico; un avversario che ci concede solo 24 ore al giorno per portare a termine tutti i nostri impegni – impegni che, a ben pensarci, siano noi stessi ad auto-imporci, stressandoci senza esitazione per rispondere al pressante imperativo sociale.
Tutto ciò, unito ai modi di dire più diffusi, costituisce un insieme di condizionamenti che orientano il nostro modo di esperire il tempo e il modo in cui finiamo per comportarci a tal riguardo. Quali sono le indirette conseguenze di questo processo?
La continua corsa contro il tempo porta con sé diverse implicazioni.
Possiamo facilmente affermare che il concetto di lentezza non sempre gode di buona reputazione; per molti individui rappresenta infatti un richiamo ad altri concetti che nell’odierno contesto sociale e culturale assumono un significato prettamente negativo, come ad esempio pigrizia, svogliatezza, noia.
Si può dunque assistere ad un fenomeno di “ghettizzazione” della lentezza, e con essa di chi si comporta, pensa, agisce lentamente. Anche le interazioni devono essere rapide, così come i rapporti che spesso si muovono su binari ad alta velocità; non c’è tempo per approfondire le relazioni, chiunque ne richieda più del solito sembra che voglia sottrarcelo e diventa perciò un ostacolo!
La ricerca della via più breve rappresenta un atteggiamento comune tra la popolazione. Chi di noi – mi ci metto anch’io – non ha mai desiderato una soluzione rapida ai propri problemi, persino a quelli che non possono certamente essere affrontati con un semplice colpo di bacchetta magica?
Succede regolarmente anche in psicoterapia. Quando le persone arrivano dallo psicologo in cerca di una soluzione facile e veloce, si trovano inevitabilmente a dover gestire quel senso di frustrazione di fronte alla risposta del professionista. D’altro canto, ogni soluzione rapida rischia di essere al contempo una soluzione frettolosa, una toppa messa sullo strappo; servono invece ago e filo – tempo e pazienza. Il cambiamento, come tutte le cose importanti, richiede tempo ed impegno. Ad ogni modo, per rispondere all’esigenza del mondo moderno, la proposta della terapia breve consente di operare un certo cambiamento in un numero limitato di incontri senza però snaturare del tutto il fondamentale processo terapeutico. Ma l’immediatezza, comunque, resta una chimera.
Sulla base di tali presupposti, l’abitudine di concedersi del tempo rischia di venire a lungo trascurata da molti di noi. Reimpostare le proprie abitudini, imparando nuovamente a prendersi il tempo e lo spazio necessari per occuparsi di se stessi e delle proprie questioni personali, può essere dunque un primo passo verso un miglioramento che investe sia l’ambito individuale – con un abbassamento del livello di ansia e stress accompagnato da un incremento della concentrazione ed altre competenze – sia l’ambito relazionale – con la diminuzione dei conflitti e l’aumento della socializzazione positiva.
Tuttavia, sembra che ci sia dell’altro. Persino in un contesto che promuove la spinta all’agire ci si ritrova nelle circostanze in cui si dispone di tempo libero da trascorrere come più si vuole. Spesso, in questi casi, ricorre insistentemente una domanda: “cosa faccio per non annoiarmi?”. Oppure, una subdola variante: “ho fatto davvero abbastanza?”. Sono queste le nostre preoccupazioni. Come risultato, i minuti e le ore di libertà rischiano di essere costantemente accompagnati da sentimenti di irrequietezza e da sensi di colpa.
È recentemente riemersa nella rete l’espressione horror vacui, proposta e condivisa da diversi autori e colleghi. Questo termine latino, in poche parole, sta ad indicare il terrore del vuoto. Il rovescio della medaglia, per chi è abituato a non fermarsi mai, è che nel momento in cui ci si ferma – perché prima o poi ci si deve fermare – inevitabilmente si viene messi di fronte ad un vuoto, ad un tempo cioè svuotato, non riempito. Imparare a sostare, a stare nel qui ed ora – nell’hic et nunc – sembra essere l’unica soluzione percorribile che consenta di interrompere quel meccanismo di fuga attraverso l’azione, quel continuo correre dietro al tempo che però non aspetta nessuno. Tornare nuovamente a sentire può essere per molte persone fonte di timore, poiché stare in ascolto significa esporsi a sentimenti di angoscia e di incertezza. Ciò rischia di alimentare ulteriormente il bisogno di riempire il tempo e lo spazio con cose, persone, impegni e passatempi. È tuttavia fondamentale operare una distinzione: qualsiasi hobby, lavoro o relazione può senza alcun dubbio rappresentare un valore aggiunto al tempo che ciascuno dedica a se stesso; è differente la situazione quando il loro ruolo è invece puramente riempitivo, al solo scopo cioè di “ammazzare il tempo” (anche in questa espressione, il tempo sembra essere un nostro nemico).
Si tratta, ancora una volta, di ottimizzare il proprio tempo: ma non più in senso quantitativo, bensì in modo qualitativo. Scegliere le cose alla quali dedicare il “giusto tempo”, invece che occuparsi di più cose possibili senza considerarne il valore per se stessi. Meglio tempo in quantità o tempo di qualità? La risposta viene da sé.
NOTA FINALE
Come certamente è accaduto a molti di voi, i miei progetti degli ultimi mesi sono stati interrotti o bloccati sul nascere a causa dell’emergenza coronavirus. Ho deciso allora che, oltre a continuare per quanto possibile il mio lavoro utilizzando i mezzi a disposizione, avrei dedicato questo tempo “sospeso” all’avvio di un progetto personale che non volevo più rimandare. Ciò mi ha spinto a scrivere il primo articolo di questo blog, scegliendo come tema proprio la gestione del tempo, consapevole del fatto che la questione risulta oggi più che mai attuale e sperando di fornire al lettore dei validi spunti di riflessione tanto per il presente quanto per il futuro. Ricordando, naturalmente, che il discorso non si esaurisce entro i limiti della quarantena.
In copertina: Salvador Dalí, Orologio Molle, 1931.
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