Ognuno di noi, nell’arco della propria vita (ma anche nel corso della stessa giornata), riveste una moltitudine di ruoli molto differenti tra loro, a seconda delle circostanze e delle persone con le quali si trova di volta in volta ad interagire. Nell’ambito delle scienze sociali e psicologiche, numerosi sono gli autori che propongono studi e teorie intorno alla questione del ruolo. Già nella seconda metà del secolo scorso, Erving Goffman illustrava il proprio punto di vista attraverso la suggestiva metafora dell’evento sociale come rappresentazione teatrale. Secondo il sociologo, l’individuo interpreta attivamente diversi ruoli così come l’attore in scena; partecipa quindi alle situazioni sociali come un attore di fronte ad un pubblico: interpretando una parte – un ruolo – che è legato alle parti – ai ruoli – degli altri attori, consapevole di essere al tempo stesso osservato dagli spettatori.
Dunque l’individuo aderisce in maniera attiva ad un sistema di ruoli, interpretando la propria parte in base alle varie circostanze e selezionando le proprie azioni in conformità al ruolo interpretato. Da questo discorso, può sembrare che ciascuno abbia la completa facoltà di valutare e decidere quali ruoli assumere. Eppure, numerose sono le dinamiche che portano le persone a rivestire un “ruolo designato”, attribuito cioè dagli altri per esigenze di contesto o per una serie di condizioni che si vengono a creare interattivamente.
Quali implicazioni porta con sé l’attribuzione di un ruolo designato?
In un episodio della serie televisiva Modern Family, si assiste al seguente scambio di battute tra Gloria (una donna colombiana) e Jay (il marito statunitense).
Gloria: «Mia cugina Rosa Maria a quattordici anni ha rubato una cosa e adesso todos la chiamano sempre “la chica che ruba le macchine”»
Jay: «Ha rubato una macchina?!»
Gloria: «Tante. Però si era fatta quel nome e… che altro poteva fare?»
In poche parole, la cugina di Gloria viene etichettata come ladra di macchine in seguito al primo furto d’auto commesso da ragazzina e non trova altra possibilità che assumersi e perpetuare tale ruolo. Questo esempio illustra, con ironia e attraverso l’espediente narrativo dello stereotipo, come il processo dell’attribuzione di ruolo finisca spesso per trasformarsi in ruolo designato e dunque in una caratteristica che appartiene all’individuo, un’etichetta alla quale non c’è modo di ribellarsi. Perché allora tentare di modificare un aspetto che viene abitualmente considerato un elemento intrinseco ed immutabile della persona? Perché compiere inutilmente questo enorme sforzo? Tale domanda rappresenta la diretta conseguenza del ragionamento più comune e diffuso tra coloro che si trovano ad assumere un ruolo scomodo o stigmatizzato. Proverò a fornire una risposta, offrendo degli spunti di riflessione; riprenderò poi la questione nella parte finale dell’articolo.
Mentre appare più facilmente intuibile come i differenti ruoli che assumiamo orientino il nostro modo di agire, non risulta altrettanto ovvio come questi influenzino anche il nostro modo di pensare e di percepirci. Vediamo insieme altri esempi, per comprendere meglio il fenomeno.
L’attribuzione di ruoli designati può verificarsi in svariati contesti: da quello familiare, a quello scolastico o lavorativo, al gruppo di amici o di conoscenti, fino al contesto sociale più ampio (un esempio estremo può essere in certi casi rappresentato dallo stereotipo).
Il ragazzino che non va bene a scuola è spesso considerato dagli altri un ragazzino stupido o svogliato, che non ha alcuna voglia di impegnarsi. Qualsiasi interazione fondata su questi giudizi rischia di condurre lo studente a seguire un comportamento che aderisca all’immagine di lui che gli viene costantemente restituita. In altre parole, il solo modo per essere riconosciuto dagli altri è quello di comportarsi coerentemente al ruolo che gli è sempre stato assegnato. La questione, naturalmente, è molto più complessa di così; tuttavia, l’esempio appare calzante.
La persona giovane che non è in grado di mantenersi, poiché decisa ad inseguire le proprie aspirazioni lungo una strada in salita, viene spesso considerata dal contesto allargato una persona immatura, che non vuole crescere né prendersi le proprie responsabilità – relegata quindi nella categoria che comprende tutta una generazione di giovani viziati e sfaticati. Questo incessante bombardamento sociale di feedback negativi e svalutanti può facilmente indurre l’individuo a sottostimarsi, al punto di identificarsi con l’idea che gli altri hanno di lui. Finisce così per agire in conformità al ruolo attribuitogli, a seconda del caso. Per citare alcuni esempi: l’eterno adolescente, il figlio mantenuto, il fallito, l’inguaribile sognatore.
Nel nostro contesto socio-culturale, la donna che cura molto il proprio aspetto fisico può essere giudicata con superficialità o venire erroneamente stigmatizzata come una donna “facile”, per via del trucco o dell’abbigliamento che indossa. Ciò può indurla a confermare il pregiudizio altrui attraverso le proprie azioni, in maniera tale che queste le permettano di riconoscersi nel ruolo sociale che le è stato assegnato. L’immagine di sé verrà dunque confermata unicamente nel suo valore negativo, che ne uscirà probabilmente rinforzato, non lasciando spazio alle esperienze di sé positive.
Gli esempi proposti rappresentano chiaramente delle semplificazioni di processi ben più articolati e complessi. Il loro scopo, tuttavia, è quello di evidenziare le possibili implicazioni derivanti dall’attribuzione di ruoli che, nel tempo, finiscono per fossilizzarsi in veri e propri ruoli designati.
Si può in realtà osservare dai diversi esempi come l’agire condizioni il pensare e come viceversa il pensare condizioni l’agire; tutto ciò dà luogo ad un processo ricorsivo che sostiene e rinforza il ruolo designato, influenzando così la maniera di autopercepirsi.
Resta allora sempre e comunque valida la concezione che prevede il ruolo attivo dell’individuo nell’interpretazione dei diversi ruoli, anche nel caso in cui essi gli vengano attribuiti dal contesto e dalle altre persone indipendentemente dalla sua volontà e approvazione. Nell’accettazione apparentemente passiva di un determinato ruolo, quindi, la persona agisce in modo attivo – seppure inconsapevolmente – innescando un processo ricorsivo di mantenimento.
Per rispondere all’interrogativo precedentemente posto – perché sforzarsi di modificare un ruolo che viene abitualmente concepito come un nostro aspetto intrinseco ed immutabile? – bisogna innanzitutto tenere presente le considerazioni fin qui esposte sulla questione. Non rappresentando in alcun modo una caratteristica propria della persona, bensì una modalità di comportamento agita attivamente in relazione al contesto, l’assunzione di un particolare ruolo da parte dell’individuo può essere senza dubbio oggetto di un lavoro terapeutico.
La tendenza a riproporre un certo tipo di pensiero e un certo modo di agire sulla base del ruolo solitamente interpretato (ciò che i professionisti dei diversi orientamenti teorici chiamano in altri modi, come ad esempio coazione a ripetere o copione comportamentale) può di fatto essere un aspetto critico che impedisce di “uscire dal personaggio”.
In psicoterapia, sono percorribili varie direzioni: si può seguire la strada che implica un cambio di ruolo, alla ricerca di una modalità alternativa di entrare in relazione col contesto, oppure il sentiero che conduce alla risignificazione del ruolo assunto, in modo tale da promuovere un’esperienza di sé differente e positiva. Naturalmente, una possibilità non esclude l’altra. Entrambe inoltre prevedono da parte dell’individuo l’assunzione della propria responsabilità rispetto all’intero processo di mantenimento del ruolo in questione. In ciascun caso, ci si muove agendo stavolta sulle competenze individuali e non più sull’aspettativa che siano gli altri a modificare il proprio atteggiamento nei nostri confronti; perché, purtroppo, quasi certamente non lo faranno! A meno che non diamo loro la giusta occasione per relazionarsi con noi in maniera diversa. Questo può senz’altro accadere, ma unicamente a partire da un mutamento nella percezione di noi stessi; da ciò dipende e deriva non soltanto il nostro modo di pensare e di agire, ma anche di rispondere all’attribuzione di qualsiasi ruolo conferitoci dal contesto che tuttavia sentiamo non rappresentarci. Ancora una volta, il processo di cambiamento comincia da se stessi.